Stampa


 

di CARLO FRANCOU

Il termine icona deriva dalla parola greca “eikon” che significa “immagine, figura”. Essa compare in officine siriache e copte nel VI e VII secolo come una delle manifestazioni della sacralità della tradizione bizantina diffondendosi in terra orientale e differenziandosi a seconda delle aree geografiche nelle quali si sviluppa.

La leggenda vuole che la prima icona della storia rappresenti il Volto santo di Gesù impresso su un velo detto Mandylion (mantile, sudario). Esso viene qualificato come acheropita, cioè non fatto da mano d’uomo ma impresso miracolosamente. Questa effigie era conservata ad Edessa , nella Siria settentrionale (oggi Urfa, in Turchia). Per difenderla da una incursione di infedeli, era stata murata e coperta da un grande mattone; quando la si tolse dal nascondiglio, si trovò che i segni del volto di Gesù si erano riprodotti anche sul mattone (detto in greco keramida: mattone, tegola). L’icona, insieme con la keramida, fu trasportata a Costantinopoli questo trasporto si celebra tuttora il 16 agosto. Secondo Eusebio di Cesarea, il fazzoletto, sul quale Gesù aveva impresso l’immagine del suo volto, fu mandato dal Nazzareno al re di Edessa, Abgar, gravemente malato di lebbra, che da quella reliquia venne guarito. Numerose e antiche icone sono conservate presso il Monastero di Santa Caterina al Sinai. Tra queste spicca una  preicona raffigurante il Pantocrator (VI secolo d.C.) di particolare importanza quale esempio di passaggio tra l’arte romanica e l’arte dell’icona. Lo sguardo vivo e pensoso del Cristo e la resa formale dell’antica tecnica ad encausto, fondata sull’uso di colori sciolti nella cera, ne fanno uno degli esempi più alti dell’immagine sacra per eccellenza. La diffusione nella cultura slava di un’arte dell’icona trovò terreno fertile nelle popolazioni dell’antica Rus’ che fecero propri, adattandoli, i canoni bizantini. Sotto l’aspetto artistico, particolarmente pregevoli sono le opere uscite nel XII secolo dalla scuola di Vladimir Suzdal’ e da quella di Novgorod (il maggior centro di produzione nel XIII secolo) in cui emerge una particolare finezza del disegno accompagnata da un accentuato linearismo e da un chiarismo coloristico che si discostano dagli stilemi bizantini per andare incontro al gusto della corte. Una costante che si trova nelle icone sia in ambiente greco che slavo è che ognuna di esse si attiene a canoni tradizionali che si sono mantenuti nei secoli. Ogni personaggio e ogni singolo episodio sono perciò facilmente riconoscibili, anche perché la tradizione prevede l’iscrizione dei nomi dei personaggi raffigurati o il titolo dell’avvenimento rappresentato nell’icona.

Ogni intervento pittorico lungamente pensato e meditato poiché “la nuova immagine è incarnazione analogica della luce e viaggio nello Spirito di Dio” Nel mondo slavo e bizantino la contemplazione delle icone ha ancora oggi un valore salvifico pari a quello della lettura delle sacre Scritture. la luce, la prospettiva rovesciata e le proporzioni, sono tra gli stilemi fondamentali di tutte le icone. La luce naturale non ha alcun valore, ma sia essa che tutti i colori terreni sono soltanto luce e colori riflessi. Nell’icona quindi non c’è mai né ombra né chiaroscuro; il fondo e tutte le linee e le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale. La prospettiva è “rovesciata” (termine coniato da Florenskij all’inizio del secolo scorso), poiché le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso l’interno del quadro, ma verso l’esterno; dando allo spettatore l’impressione che i personaggi gli vadano incontro.

La contemplazione delle icone ha ancora oggi un valore salvifico pari a quello della lettura delle sacre Scritture. La luce, la prospettiva rovesciata e le proporzioni, sono tra gli stilemi fondamentali di tutte le icone.

La luce naturale non ha alcun valore, ma sia essa che tutti i colori terreni sono soltanto luce e colori riflessi.

Nell’icona quindi non c’è mai né ombra né chiaroscuro; il fondo e tutte le linee e le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale. La prospettiva è “rovesciata” (termine coniato da Pavel Florenskij all’inizio del secolo scorso), poiché le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso l’interno del quadro, ma verso l’esterno; dando allo spettatore l’impressione che i personaggi gli vadano incontro.

La tridimensionalità non viene rappresentata, in quanto la profondità è data solo dall’intensità degli sguardi. Anche i profili non esistono se non per indicare i peccatori o il demonio (come nel caso dell’Icona della Natività con la raffigurazione del diavolo tentatore, posto di profilo accanto a San Giuseppe).

Le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza non sono reali ma relative al valore delle persone o delle cose: non esiste naturalismo o realismo mancando la cosiddetta ritrattistica, ma tutto punta al simbolismo. Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli è disegnato a tratti leggeri. La composizione comunque è dominata dal volto, perché è da qui che il pittore di icone prende le mosse. La finalità dell’icona è nello sguardo. Gli occhi sono generalmente molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una fronte alta a larga; il naso è allungato, le labbra sottili, il mento sfuggente il collo ben marcato. Anche il movimento quando viene rappresentato non è mai per esprimere naturalezza ma sempre e solo per sottolineare qualche ben preciso concetto teologico.

Tutti questi caratteri verranno ripresi da Dionisio di Furnà il quale all’inizio del XVIII secolo con il suo “Ermeneutica della pittura”, redatto in base a ciò che si era praticato da secoli, provvederà ad indicare in maniera precisa le direttive per i pittori di icone.

Un altro aspetto frequente nelle icone è la simmetria. Essa indica un centro ideale al quale tutto converge.

Basti pensare ad alcune delle icone più note: la Trasfigurazione che ha per punto centrale il Cristo, così come la Crocifissione, la Discesa agli inferi e, ancora, l’Ascensione con Maria al centro della raffigurazione e la Pentecoste che vede ancora la Madre di Gesù tra gli apostoli al centro della scena. Anche il fondo oro fa parte dei canoni tradizionali delle icone. L’oro costituisce infatti il fondo tipico dell’icona classica. E’ una sorta di non colore, avendo il ruolo di illuminare le scene destinate a staccarsi dalla normalità degli eventi: un fondale ideale per accentuare il fatto che le scene raffigurate rimandano all’assoluto. Esso estrapola la composizione ponendola al di fuori dello spazio e del tempo accentuandone il significato salvifico e meditativo. Si guarda all’icona ammirandola, la si medita e si prega attraverso di essa.

Una delle funzioni dell’icona è stata soprattutto quella di catechizzare il popolo sui misteri della vita di fede attraverso le immagini. La visione di un’immagine così significativa era più efficace della parola scritta che, soprattutto in epoca medioevale, sarebbe stata fruibile da pochi. Le immagini, insieme alla musica sacra e alla liturgia divennero il modo più efficace per portare al popolo i complessi contenuti della teologia cristiana.

Il luogo liturgico fondamentale delle icone è il tempio e, nel tempio, anzitutto la cosiddetta iconostasi, la parete che separa i fedeli dal luogo absidale (chiamato santuario) dove si compie la celebrazione. Questa parete di divisione, gi visibile nelle chiese bizantine del Mille, veniva e viene ancor oggi completamente ricoperta di icone rivolte verso i fedeli. Tra le immagini più frequenti quelle della Madre di Dio e di Giovanni il Battista, ai lati del Salvatore in Trono, in atto di supplica (la Deesis) per l’umanità.

In Occidente l’iconografia è rimasta sostanzialmente di tipo bizantino sino a Giotto, cioè fino al momento in cui si è cominciato ad introdurre la prospettiva della profondità, il chiaroscuro naturalistico, il realismo ottico perdendo progressivamente il carattere misterico e trascendente della rappresentazione sacra.

Il senso dell’importanza del messaggio iconografico viene rimarcato anche nel Nuovo catechismo della Chiesa Cattolica dove si riprende l’antica tradizione orientale citando espressamente San Giovanni Damasceno, il grande difensore delle immagini sacre al tempo dell’iconoclastia che, nel “De sacris imaginibus orationes”, scriveva:

«Un tempo Dio, non avendo né corpo, né figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da un ‘immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e che ha vissuto con gli uomini posso fare una immagine di ciò che ho visto di Dio. A viso scoperto, noi contempliamo la gloria del Signore».

Ma non solamente l’immagine di Gesù può e deve essere raffigurata. Tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo, lo sono anche le immagini di Maria e dei santi, poiché significano Cristo che in loro è glorificato: «a somiglianza della raffigurazione della Croce preziosa e viva, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse le immagini del signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata Signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli di tutti i santi e giusti».

Ecco a questo proposito quanto riportato dallo strumento ufficiale di catechesi della Chiesa Cattolica: «Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il Corpo di Cristo era delimitato. Perciò l’aspetto umano di Cristo può essere rappresentato» (Gal 3,1).

Nel settimo Concilio Ecumenico la Chiesa ha riconosciuto legittimo che venga raffigurato mediante “venerande e sante immagini”.

Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel Corpo di Gesù il “Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne“. In realtà, le caratteristiche individuali del Corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i lineamenti del suo Corpo umano che, dipinti in una santa immagine, possono essere venerati, perché il credente che venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.

Nella riproduzione nulla è lasciato al caso; persino la posizione di una mano può avere un alto significato teologico. Prendiamo ad esempio il gesto benedicente del Cristo Pantocrator. Un manuale di Monte Athos spiega la sua raffigurazione in maniera estremamente esauriente.

«Quando raffigurate la mano che benedice, non unite le tre dita insieme, ma incrociate il pollice col quarto dito in modo che il secondo, l’indice, resti diritto e il terzo resti un po’ piegato e formino insieme il nome di Gesù (IHCOYC) IC. Infatti il secondo dito restando aperto indica lo I (iota) e il terzo forma con la sua curva un C (sigma). Il pollice si pone attraverso il quarto dito, il quinto è anch’esso un po’ curvo, e questo forma l’indicazione (XPICTOC) XC, perché l’unione del pollice e del quarto dito forma un X (chi) e il mignolo fa, con la sua curva, un C (sigma). Queste due lettere sono l’abbreviazione di Christos.

Così per la divina provvidenza del creatore, le dita della mano dell’uomo, che sono più o meno lunghe, sono disposte in modo da poter raffigurare il nome di Cristo».

La realizzazione dell’icona coinvolge pertanto l’iconografo non solo sotto l’aspetto estetico ma anche e soprattutto sotto quello teologico e religioso tant’è vero che nel lavoro pittorico una componente importantissima è sempre stata quella della preghiera, dai primi secoli fino ad oggi. Anche Francisco Argüello e il gruppo impegnato nel ciclo di Piacenza si sono sempre attenuti con scrupolo a questa regola. Il pittore di icone prima di mettersi al lavoro pone anche il suo spirito verso il mistero divino recitando le sue preghiere, come l’antica orazione di seguito riportata:

“Tu, divino Signore di tutto ciò che esiste, illumina e dirigi l’anima, il cuore e lo spirito del tuo servo, guida le sue mani, affinché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella della tua Santa Madre e di tutti i Santi per la gloria, la gioia e il decoro della tua santa Chiesa”.


I Santi Pietro e Andrea

L’icona esprime la comunione tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente: San Pietro, primo vescovo di Roma, rappresenta la Chiesa d’Occidente mentre il fratello Andrea, patrono della sede episcopale di Bisanzio (Costantinopoli), rappresenta quella d’Oriente. La caratteristica delle icone siro-palestinesi è quella di riportare l’iscrizione in lingua araba.


La nascita di S. Giovanni Battista

Elisabetta ha partorito il suo primogenito e, in basso a sinistra, Zaccaria, privato della parola, scrive il nome che andrà dato al neonato: Giovanni. Il Battista è particolarmente venerato anche dall’Islam (Naby Yahiah ibn Zakariah); nella moschea degli Omayyadi a Damasco in un’edicola la tradizione vuole che sia conservata la sua testa. 

 


La Natività 

La più antica immagine della natività si trova nella basilica di Betlemme e raffigura Maria seduta con il Bambino sulle ginocchia. Dopo il Concilio di Efeso che fissò il dogma della divina maternità si iniziò invece a rappresentare la Vergine distesa. 

 


I Quattro Evangelisti 

I quattro evangelisti sono rappresentati al tavolo intenti a scrivere con accanto i simboli del “tetramorfo” che li identificano e che compaiono nelle profezie di Ezechiele, riprese poi nelle visioni dell’Apocalisse: per Matteo l’angelo, per Luca il bue, per Giovanni l’aquila e per Marco il leone. 

 


I santi Basilio di Cesarea, Atanasio di Alessandria e Giovanni Crisostomo 

Vescovo di Cesarea, Basilio (ca 330-379) compì brillanti studi a Costantinopoli e ad Atene dove strinse amicizia con Gregorio Nazianzeno. Dopo un viaggio in Egitto e nel Vicino Oriente per conoscere i cultori della vita monastica decise di distribuire i suoi beni ai poveri e si ritirò a vita di preghiera e di studio. Con le sue Regole è noto soprattutto come legislatore del monachesimo cenobitico. Atanasio (ca 295-373) difensore dell’ortodossia contro l’arianesimo, fece conoscere all’Occidente la figura anacoretica di sant’Antonio abate. Giovanni Crisostomo (ca 354-407) (cioè “bocca d’oro” per la sua eloquenza) fu patriarca di Costantinopoli in un periodo particolarmente travagliato. A lui si deve la liturgia ancora in uso nelle Chiese d’Oriente. 

 

 


La Crocifissione e la Cena Misteriosa

icona siro-palestinese, monastero greco melkita cattolico di San Sergio, Maalula, Siria 

 

Nella doppia raffigurazione sono riportate la Crocifissione e l’Ultima cena che le Chiese orientali preferiscono definire la Cena misteriosa: la parte superiore rappresenta il Cristo crocifisso con la santa Vergine e l’apostolo Giovani, il discepolo amato. La metà inferiore raffigura la Cena misteriosa particolarmente dettagliata, con la tavola a forma semicircolare, esattamente come quella dell’altare centrale della chiesa dei santi Sergio e Bacco a Maalula.


Theotokos (Madre di Dio) di Maalula 

icona bizantina, monastero greco melkita cattolico di San Sergio, Maalula, Siria 

 

L’icona della Theotokos (Madre di Dio) rappresenta la santa Vergine con il bambino Gesù tra le braccia. Secondo un’antica tradizione, questa icona sarebbe una copia dell’originale dipinta da san Luca l’evangelista.

 

 


La Madre di Dio 

icona siro-palestinese cappella Greco melkita cattolica dedicata a San Paolo, Damasco (sec. XVIII) 

 

L’iscrizione in arabo riporta la seguente citazione tratta dal Tropario: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta. Amen

La cappella di San Paolo inserita nel perimetro delle mura di Damasco segnala il luogo in cui, secondo la tradizione, i discepoli avrebbero calato l’Apostolo all’interno di una cesta per farlo sfuggire agli ebrei che intendevano ucciderlo per la sua predicazione nelle sinagoghe. Ai lati dell’altare due antiche icone della Madre di Dio e del Cristo pantocratore vengono quotidianamente toccate dalla mano dei fedeli che in segno di devozione le accarezzano portandosi poi le mani sul viso, sul cuore e sulle spalle nel segno della Croce. 

 


Cristo Pantocrator 

L’iscrizione in arabo riporta la seguente citazione dal Vangelo di Giovanni: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la sua vita per le pecore”. Gv. 10,11

 

 


L'Arcangelo Michele