In occasione del sinodo delle Chiese cattoliche d’Oriente tenutosi in Vaticano nell’ottobre 2010 l’Ordine patriarcale della Santa Croce di Gerusalemme del Patriarcato Greco Melkita Cattolico che ha una delegazione anche a Piacenza ha tenuto nella basilica di Santa Maria in Cosmedin a Roma un convegno dedicato all’Oriente cristiano. Tra i relatori c’era anche il diacono melkita Louay Al-Shabani che ha portato la sua testimonianza sulla situazione dei cristiani in Iraq.

di Louay Al-Shabani

Sono iracheno e cristiano, come tale intendo parlare della mia gente: i cristiani d’Iraq. Vorrei premettere però che ad essere oggetto degli insensati attentati a cui siamo ormai abituati, non sono solo i cristiani, ma ogni singola comunità religiosa esistente: ciascuna è sotto un mirino particolare, e tutte insieme periscono per le bombe.

Voi tutti ben sapete che l’Iraq era, cerca di essere e non si sa se potrà continuare ad essere un crogiuolo di religioni e di etnie.

Il caso Iraq è molto complicato. Molto è stato detto, documentato, filmato, ci sono state interviste, accorati appelli da ogni voce e da ogni dove. Ormai non è rimasto molto, tantissimi sono andati via, chi prima dell’imminente guerra preventiva, chi dopo, all’avvenuta liberazione! Si, perché da quando si è data via libera al terrorismo in Iraq, i primi ad essere oggetto di minacce, soprusi, uccisioni a scopo di estorsione e non, sono stati i cristiani.

Ecco come Baghdad e Mousul si sono svuotate, per non parlare dei cristiani presenti al sud, che ora si contano sulla punta delle dita. Chi non è potuto scappare è rimasto barricato in casa, chi invece ha potuto, è uscito dal Paese, a volte ha venduto tutto, altre non ne ha avuto il tempo, quindi è andato senza nulla per ritrovare poi il nulla. In tanti hanno ritrovato la propria casa occupata, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore, ne hanno ritrovato le macerie, volendo tacere su quanti sono stati giustiziati senza motivo.

Ad essere oggetto di persecuzione è l’intero popolo di Dio, laici e chierici. Senza volerlo, la follia omicida di questi invasati ha regalato al mondo la mirabile testimonianza di fede di laici e chierici.

Chi vi parla è amico del giovane sacerdote, Ragheed Ghanni, barbaramente assassinato in "odium fidei" il 3 giugno 2007 assieme ai suoi tre suddiaconi, dopo aver celebrato la Divina Liturgia nella Chiesa dello Spirito Santo a Mousul; conoscevo anche il suo vescovo mons. Raho, che seppure si dice pagasse per l’incolumità dei suoi fedeli, dopo essere stato rapito dai suoi estorsori è stato lasciato morire e abbandonato cadavere. Sembrano storie di altri tempi, eppure sono vere! Ieri giocavo a calcio con Ragheed.

Miglior sorte è invece toccata al caro amico Saad Sirop, compagno di seminario a Roma, e ora sacerdote caldeo di Baghdad, è stato tenuto prigioniero e torturato per lunghi interminabili 28 giorni, a partire dal 15 agosto 2006.

Ancora oggi porta i segni di quelle ferite, sia sul corpo che nell’animo, ma ha deciso di tornare in Iraq per lavorare a Baghdad e per dire che l’amore è più forte dell’odio. Tanti, noti ed ignoti sono stati rapiti, uccisi, costantemente minacciati e tutti oggi vivono nell’incertezza del presente, ma il sacrificio di ciascuno è in egual misura una professione di fede, di una salda fede che non cede e che non può essere sradicata con la violenza che oggi devasta la terra dei due fiumi, il paradiso terrestre di cui si legge nelle Scritture.

Chi non è potuto per varie ragioni uscire dai confini del paese si è riversato nel nord Iraq, dapprima trovando rifugio nei paesi di campagna, più o meno zona franca fino ad un anno e mezzo fa. Franca perché per la maggiore sono popolati da cristiani e perché sono sotto la protezione dei Kurdi. Da quando però l’interesse per Mousul e dintorni ha superato quello per Baghdad, si sono verificati tumulti anche nelle campagne limitrofe, che sono divenute non più tanto sicure e hanno svelato i veri interessi dei Kurdi, non di certo appassionati alla salvaguardia del cristianesimo iracheno. Per questo motivo, seconda meta per chi cerca rifugio sono i monasteri. In genere i nostri monasteri sono imponenti strutture che in tempi di pace offrono stanze a pellegrini in cui si può alloggiare per tutto il tempo in cui si desidera rimanere in visita; in tempi di guerra invece, quelle stanze si offrono alle famiglie spaventate che accorrono in cerca di rifugio.

Posso testimoniare di un monastero in particolare che conosco sin da quando ero giovane, è tenuto dai Giacobiti, a nord di Mousul, è il monastero di San Matteo. È molto grande, sorge sotto la cosiddetta cella ove si rifugiò San Matteo, un monaco pellegrino sceso dalle montagne della Turchia e qui si narra che a poco a poco fondò un monastero di 7000 monaci.

Oggi i monaci non superano la decina, ma non per questo si tirano indietro ogni volta che accorrono le famiglie in cerca di rifugio. Ai piedi della montagna del monastero si trova un paesino interamente costruito per accogliere tutte le famiglie rimaste senza casa e senza un posto sicuro ove poter restare, il monastero se ne prende cura.

Anche gli autobus degli universitari cristiani, nonostante la scorta armata, più volte sono stati attaccati lungo il loro percorso. Ma l’attacco più violento e subdolo è stato realizzato nella scorsa primavera. I cristiani combattono anche per la loro istruzione, come vedete, non solo per la libertà di culto e di coscienza. Certamente le forze di polizia sono state attivate per proteggere queste minoranze, ma non è possibile mettere a disposizione di ogni cittadino cristiano un agente; come afferma l’Ambasciatore iracheno presso la Santa Sede, è impossibile ed impensabile, a sua detta i cristiani devono organizzarsi meglio e di più. Di fatto essi già cercano di proteggersi, ogni singolo paesino nelle sue entrate ed uscite è fornito di piccoli posti di blocco ove vigilano giovani volontari a guardia di chi entra ed esce. Questi giovani sono per la maggiore quelli che hanno perso il posto di lavoro perché costretti ad andare via dalla città. Ad ogni entrata delle chiese, rigorosamente chiuse durante il giorno, ci sono sempre di sentinella due o tre giovani armati. Questa è la foto dei paesini da me visitati due anni fa, foto tuttora attuale, purtroppo. I posti di blocco, seppur artigianali, sono ovunque, lungo le strade, sulle piccole colline, ovunque filo spinato per proteggersi al meglio da eventuali autobombe. E questo non sempre basta.

Al momento la maggiore preoccupazione è su cosa accadrà alla definitiva uscita degli americani che in diversi casi sono stati essi stessi un problema per la popolazione. Le piccole stradine sono state devastate dai loro imponenti mezzi di trasporto al cui passaggio tutti dovevano scansarsi. La regola era di tenersi almeno a 100 metri di distanza da loro, a qualsiasi luce simile a flash o altro sparavano a vista, guai ai mezzi che non si scansavano, venivano letteralmente schiacciati. Che dire poi del disordine che portavano per i fili della corrente elettrica. I cieli dell’Iraq sono colorati non solo dal sole e dal fumo delle bombe, ma anche dalle miriadi di fili penzoloni dei diversi generatori di cui ciascuna casa è fornita. Si perché il maggiore esportatore di petrolio non è ancora in grado di fornire ai suoi cittadini una continua erogazione di corrente elettrica, motivo per cui ogni casa ha al minimo un filo per la corrente statale ed uno del suo generatore.

Immaginate che fine faceva questa tela di fili al passaggio dei mezzi americani con le loro possenti antenne? Il buio in ogni casa! Il caos. Una volta staccati chi sapeva più quali erano i propri fili? Tutto da rifare, e la tela aumentava per essere poi sfilata al prossimo passaggio.

Ma questi erano problemi decisamente minori. Ora sono in molti ad essere preoccupati per la loro sorte alla definitiva uscita americana. La domanda è, sarà in grado l’esercito iracheno di mantenere l’ordine? In ogni caso noi cristiani d’Iraq abbiamo pazienza, il sangue dei nostri martiri ci sostiene, deve farlo, perché è impossibile che il loro sia stato un martirio vano.