Monachesimo, ieri e oggi

(di Giuseppe Cremascoli)

Il monachesimo va considerato una delle vicende più grandi e complesse della storia del mondo. Nella molteplicità delle sue manifestazioni, esso non si legò soltanto alla condizione cristiana, ma ebbe connessioni con tante forme di ricerca della sapienza e della salvezza, e fu animato - sia pure in diverse forme - da un anelito di comunione con Dio.

Qui è tema di un breve discorso il monachesimo dell'Occidente cristiano, che, nella sua vita plurisecolare, fu «un cosmo aperto di strutture instabili» (G. Penco, Medioevo e santità monastica: un'equazione? in Studi medievali, 24, 1983, p. 399), di cui lo storico può cogliere solo frammenti, suggestionato dall'oggi, perché il passato si rifrange sempre nello specchio del presente, nonostante i nostri propositi di distacco e di imparzialità. Non sarà inutile aggiungere che l'anima profonda del monachesimo porta al cuore stesso dei più grandi misteri dell'uomo e di Dio, ove si intrecciano solitudine e comunione con la sorgente stessa di ogni cosa creata, tentazione e pace suprema, per la certezza di attendere con totale impegno alla ricerca dell'unico necessario, che è Dio. Si creda a queste cose o le si irrida, bisogna ammettere che esse hanno segnato nelle più varie forme la vita di immense schiere di monaci lungo i secoli della storia cristiana, determinando esperienze che sfuggono a qualsiasi analisi, e di cui non è possibile registrare che qualche umana ed esterna manifestazione.

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Oltre che in tanti ambiti della vita e della prassi, il monachesimo fece sentire la sua presenza,  soprattutto nei secoli medievali, nell'impianto della cultura. Dal silenzio dei cenobi, ove anche i testi pagani erano pazientemente trascritti, le voci della classicità giunsero a noi, mentre la visio mundi cristiana veniva accolta in mirabili architetture di pensiero, dopo i secoli in cui le invasioni barbariche sembra-vano aver sepolto per sempre la civiltà dell'Occidente. Dalla caduta dell'impero romano alla rinascita carolingia, la lingua di Roma e il pensiero cristiano vissero all'ombra dell'istituzione monastica, mentre prendeva inizio e maturava il processo da cui sarebbe nata l'Europa. Avvenne, anzi, che la cultura vide fusi in sé gli elementi che scaturiscono dalla ratio e i lumi che il credente accetta dalla divina Rivelazione. Un tale connubio non è mai facile, ma se in certe epoche e in taluni spiriti poté compiersi, dobbiamo pensare alle scuole monastiche e alle università medievali, ove si elaborarono per la vita e per il pensiero sintesi che parvero perfette, superando angosce e lacerazioni che l'uomo ha, invece, l'impressione di portare sempre con sé. Se una simile età aurea apparve davvero nel mondo, essa fu di breve durata, perché già nel medioevo, soprattutto in quella che fu definita la rinascita del XII secolo, si intravedono i risultati di un lungo itinerario che l'intellettuale riterrà, poi, sempre di dover compiere, alla ricerca di una verità di cui si è consapevoli in modo autonomo, non assoluta, ma, comunque, valida nel proprio ambito, e contro la quale - se verificata con onesto impegno - nessuna auctoritas può pronunciare condanne a priori. Nei credenti un tale cammino dell'intelletto è quanto mai arduo, perché deve compiersi in un continuo confronto con i contenuti della fede, nella necessità di precisare competenze e ambiti, in uno sforzo da cui non possono stare assenti tensioni, incertezze e angosce.

Bisogna anche ammettere che, nella societas christiana del medioevo, tale cammino era compiuto all'interno di una proclamata adesione al Signore, e - di fatto - i risultati ottenuti si riferivano spontaneamente a tutto l'ambito della condizione umana, non escluso ciò che è di sua natura mutevole e terrestre, riducendo, così, lo spazio dell'opinabile, anche perché gli uomini erano legati da tanti vincoli nell'ordine della prassi, stanti i quali difficilmente nascono difformità nel consenso. Avvenne così che la cultura - intesa nella sua più ampia accezione di lettura del mondo e di progetto globale del vivere - fu elaborata da intellettuali vincolati alle strutture del mondo cristiano, alle quali, oltre che alla fede, dovevano dare pienezza di consenso e di appoggio. Va, anzi, aggiunto che l'organizzazione stessa del fatto culturale restava in un ambito dichiaratamente cristiano, perché il monachesimo e gli ordini religiosi gestivano pressoché totalmente le strutture scolastiche, finché lo sgretolarsi della società christiana scosse dalle fondamentale tale situazione, e la cultura assunse progressivamente, dall'Umanesimo in poi, una connotazione laica, spesso con ardori polemici difficilmente giustificabili, e talora con una precisa volontà di combattere ogni interesse per la trascendenza nella ricerca intellettuale.

Posti ormai in tale vicenda - drammatica, quando la passione oscura la mente e chiude gli occhi alla verità - i cristiani devono rendersi conto del compito a cui sono chiamati, quello cioè, di isolare il nucleo vero e fondamentale del messaggio del Signore, e di porsi, verso di esso, in atteggiamento di rinnovato amore e di accoglienza totale. Isolato, esso apparirà ancor più nella sua grandezza, come frutto del progetto di Dio che si è manifestato a noi, e assolutamente irriducibile a ciò che noi potremmo volere o pensare. Accolto con tale sentimento di ossequio e di amore, non sarà confuso e banalizzato con la provvisorietà del contingente, verso cui, peraltro, proprio la fede ispirerà gli atteggiamenti da assumere, che saranno di rispetto e di umiltà verso tutto ciò che può essere esperimentato e vissuto nei limiti di una autentica libertà. Quanta intelligenza e virtù occorrano nel percorrere questa via senza soccombere all'errore e all'inganno, è più facile immaginare che dire, ma è certo che non è più pensabile il ritorno a un mondo in cui l'ambito del mutevole e dell'opinabile non sia ritenuto da salvare ad ogni costo, ma venga, anzi, manipolato e distorto per mire di potere, come oggi, purtroppo, ancora avviene in tanta parte del mondo, dove i popoli vivono nella schiavitù dell'ideologia.

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Mirabile e da non dimenticare fu anche la presenza del mondo cristiano, lungo i secoli e attraverso le organizzazioni religiose e monastiche, nelle zone più umili e dolenti della condizione umana, con una miriade di opere assistenziali e caritative, in ossequio al precetto della carità, così centrale nel messaggio del Signore. È questo un aspetto tra i più luminosi della storia cristiana, in cui Dio si rivela attraverso l'uomo, a cui è dato di diventare, nel compiere il bene, icona vivente della divina realtà. Per secoli i luoghi classici dell'accoglienza al povero, al malato e all'orfano furono diretta-mente gestiti dalla comunità cristiana attraverso l'opera di ordini religiosi, che sorsero numerosissimi con lo scopo di esercitare in forma eroica la carità verso il prossimo.

Ora, però, molte cose sono mutate nella struttura della società, e, nei popoli economicamente progrediti, l'assistenza è affidata ai poteri dello Stato, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe prevedere e provvedere, con interventi sicuri e scientificamente gestiti, ovunque nascano casi dolorosi e di necessità. Sarà, per questo, finita o resa inutile la presenza caritativa dei cristiani nel mondo e meno attuale l'urgenza di rispondere con generosità al precetto del Signore? Senza alcun dubbio le cose non stanno affatto così; anzi, per i credenti in Cristo si apre una fase nuova e grandiosa della storia, quasi una sfida per loro, chiamati ad attuare i valori autentici della carità cristiana rispetto ai surrogati umani, che non possono salvare il cuore dell'uomo, l'intimo dello spirito, ove si annida il baratro di ogni angoscia, ancor più che nella povertà, nella malattia o nella morte. Ci saranno, dunque, sempre grandi spazi per attendere alla terapia dell'anima, in un mondo di creature devastate dalla disperazione e dall'abbandono, lontane dalla fonte del loro essere, dall'unico necessario, che è Dio.

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È un altro, se mai, il problema che la cristianità di oggi, a questo proposito, porta in sé, e che nasce dalla condizione di irreversibilità connessa con la consacrazione religiosa, nella quale ci si pone in distacco dal mondo e dalle esperienze. più comuni ma anche più amate dell'esistenza, senza le quali il cuore sembra soccombere, oppresso da pesi di cui non avverte una così assoluta necessità. Quanto all'impossibilità del ritorno e all'impegno di perseverare nei voti emessi all'inizio della vita religiosa o monastica, siamo, infatti, oggi meno agguerriti di un tempo, quando tutto, nella mentalità e nella prassi, si presentava immutabile nell'esistenza, dalla situazione della famiglia a quella professionale e sociale, e rendeva così pressoché naturale l'accettazione dello stato di vita in cui si piombava, o a cui le scelte compiute necessariamente portavano. Oggi, invece, gli spiriti più dotati sentono il desiderio di inventare continuamente le situazioni del vivere, per cogliere tutta la ricchezza delle esperienze possibili e visitare ogni dimora in cui si può essere accolti nel terrestre viaggio. In questa mentalità può annidarsi il pericolo di finire in situazioni di insicurezza e di instabilità psicologica, ma è certo che essa è diffusissima e si accompagna alla disperazione e l’abbandono, lontane dalla fonte del loro essere, dall’unico necessario, che è Dio

È un altro, se mai, il problema che la cristianità di oggi, a questo proposito, porta in sé, e che nasce dalla condizione di irreversibilità connessa con la consacrazione religiosa, nella quale ci si pone in distacco dal mondo e dalle esperienze. più comuni ma anche più amate dell'esistenza, senza le quali il cuore sembra soccombere, oppresso da pesi di cui non avverte una così assoluta necessità. Quanto all'impossibilità del ritorno e all'impegno di perseverare nei voti emessi all'inizio della vita religiosa o monastica, siamo, infatti, oggi meno agguerriti di un tempo, quando tutto, nella mentalità e nella prassi, si presentava immutabile nell'esistenza, dalla situazione familiare a quella professionale e sociale, e rendeva così pressoché naturale l'accettazione dello stato di vita in cui si piombava, o a cui le scelte compiute necessariamente portavano. Oggi, invece, gli spiriti più dotati sentono il desiderio di inventare continuamente le situazioni del vivere, per cogliere tutta la ricchezza delle esperienze possibili e visitare ogni dimora in cui si può essere accolti nel terrestre viaggio. In questa mentalità può annidarsi il pericolo di finire in situazioni di insicurezza e di instabilità psicologica, ma è certo che essa è diffusissima e si accompagna alla disistima per gli atteggiamenti di rassegnazione, considerati, invece, il vertice della sapienza dalle generazioni vissute prima di noi. Non c'è chi non veda in tutto questo un motivo della crisi fortissima che ha attraversato, soprattutto negli ultimi decenni, la vita di donne e di uomini consacrati a Dio, che non seppero resistere ai richiami del mondo ormai lasciato, o, peggio, restarono al posto di combattimento sorretti solo da stoica fortezza e con la sensazione di battersi per una causa di cui diventavano sempre più sbiaditi il valore e il senso. Vedere in questa complessa vicenda solo il segno della tristezza dei tempi o del peccato degli uomini, non porta al cuore del problema, che sta, invece, nell'urgenza con cui si ripresenta alla mentalità di oggi una questione antichissima, quella, cioè, del rapporto che la condizione cristiana viene ad assumere col mondo, soprattutto quando essa, per attuare in pienezza gli ideali evangelici, si pone, di fatto, al di fuori dei comuni stati di vita, come risulta da ciò che è stabilito nelle regole monastiche e in quelle che fissano in concreto come deve svolgersi l'esistenza quando essa è consacrata a Dio. Per una testimonianza, a tale proposito, cito da R. Grégoire: «Le monachisme souhaite parvenir à la perfection de la vie chrétienne, mais n'a jamais prétendu offrir un exemple de vie humaine idéale ou intégrale; son aspect exceptionnel l'en empéche d'ailleurs» («Se rendre étranger aux moeurs du siècle». «Le mépris du monde. Problèmes de vie religieuse, Paris 1965, p. 20). Se non vado errato, la frase del Grégoire è la spia di un problema antico, di un rapporto sentito difficile tra la pienezza della vita umana e le esigenze della perfezione secondo il Vangelo, verso la quale si deve tendere nella vita monastica. La povertà assoluta, la castità perfetta, l'obbedienza sino all'estrema abnegazione di sé sono valori che sgorgano dal Vangelo, ma non c'è chi non vedi quanto di paradossale essi comportano e da quanti spazi della ricca e complessa vicenda umana si resta esclusi per tener fede ad essi. E questo «l'aspect exceptionnel» di cui parla il Grégoire, in forza del quale il monachesimo non ha mai preteso di offri-re «un exemple de vie humaine idéale ou intégrale?». trovata. Quel che importa è di abbinare la retta interpretazione del valore evangelico, liberandolo da ogni lettura strumentale o distorta, e l'intelligente ascolto dei segni dei tempi, da cui non si può prescindere nel cammino verso Dio. Per questo è necessaria una seria meditazione sul desiderio tipico dell'uomo di oggi di organizzare la vita riservandosi la possibilità di inventare sempre nuove situazioni in cui arricchire l'ambito della propria esperienza, nella cultura come nel lavoro e nel complesso tessuto dei rapporti umani. Un tempo, per la vita degli individui come per le strutture in cui essi erano accolti, tutto era regolato sulla solidità dell'immutabile, dalla piccola realtà quotidiana ai grandi eventi che danno il volto alla storia. La vicenda del monachesimo porta il segno di questa stabilità oggi perduta e in base alla quale non sono più ora misurati i ritmi dell'esistenza. E, anzi, tutto il tessuto della società in cui viviamo che ha elementi in scarsa consonanza col volto tradizionale del monachesimo. Il ceno-bio poteva un tempo costituirsi come una piccola res publica, e diventare, anche, modello di vita per una società in cui gli individui si sentivano malsicuri e dispersi. Oggi questo concreto diversificarsi dalla storia non è più possibile, almeno nei paesi tecnicamente avanzati, in cui la vita degli individui e delle strutture è computerizzata dalla nascita alla morte, e tutti, anche gli eremiti, si vedono coinvolti in responsabilità amministrative, politiche, fiscali. Si tratta, certo, di elementi secondari rispetto al senso profondo dell'esistenza, ma non c'è dubbio che l'incidere nella storia attraverso il tessuto concreto della vita sembra oggi compito esclusivo o preminente dell'autorità laica, come un tempo lo era della societas christiana, che lo attuava in gran parte attraverso le grandi strutture della vita religiosa e monastica.

Del resto troppe cose sono mutate negli spiriti e nella prassi perché si possa stancamente attendere il ritorno del tempo che fu. Oggi sembrano, anzi, spenti del tutto l'attesa e il tremore, anche se come in nessun'altra epoca storica ci si trova alle soglie dell'Apocalisse, con una spada di Damocle sopra di noi, pensando alla quale il povero Adamo che trascina i suoi passi nel mondo si sente misero e solo, e non sa da chi attendere amore e pietà. In questo smarrirsi dell'anima, il monachesimo torna a noi non con la forza delle grandi opere che lo hanno reso potente nei secoli, ma con l'essenza del suo messaggio, espresso, come scrive G. Penco, dal «tema del ‘deserto’ nella sua tipica accezione biblica, di ambiente cioè in cui, a causa dell'assoluta mancanza di ogni risorsa umana, ci si rimette completamente all'intervento di Dio per la vittoria sulle forze del male» Questo ambiente è l'eremo in cui S. Romualdo voleva totum mundum convertere (S. Pier Damiano, Vita Romualdi, ed. G. Tabacco, Roma 1957, 37, p. 78), e nel quale il povero Adamo di oggi può ancora tentare di capire da chi deve attendere amore e pietà.